mercoledì 29 gennaio 2014

Adam Resurrected (2008) : un poema filmico sulla Shoah e la Follia

Il film è stato riproposto dalla RAI in occasione della commemorazione annuale della Shoah. Se lo avete perduto, cercatelo e guardatelo in compagnia. Poi fate qualcosa di vitale perché il film origina dal Bathos per incrociare il Sublime ma ciò può risultare insopportabilmente ciclotimico.

Come scrive Massimo Carboni nel suo saggio sulle estetiche moderne  Il Sublime è ora : "...Il Perturbante [ Das Unheimliche di Freud] è la figura del Sublime moderno, una delle forme in cui esso riemerge... E la figura dell'Abisso, del profondo, Bathos, già in Longino è Sublime..." Così alla follia della guerra e dell'orrido si può contrapporre solo una nuova e generatrice follia. Film visionario e poetico, certamente stimolante a livello psichiatrico, Adam Resurrected (2008) riesce a catturare nello schermo pur disgustando ed evocando emozioni contrastanti. 
Paul Schrader è stato lo sceneggiatore di Taxi Driver, Obsession, Mosquito Coast) ma anche un talentuoso e discutibile regista (American Gigolò, L'ultima tentazione di Cristo ecc.). In Adamo resuscitato affronta il tema della Shoah dal punto di vista di chi ne è sopravvissuto con la mente contusa e piagata per sempre. Una scelta indigeribile ma assolutamente sublime. D'altronde come dice lo psicoanalista Racamier l'uomo arriva ad un bivio e sceglie talora tra la morte ed il delirio. L'Olocausto o ti fa morire o delirare.  Paul-Claude Racamier, psicoanalista e psichiatra francese di grande fama, ha dedicato gran parte della sua vita professionale allo studio e alla cura delle psicosi, proponendo un originale modello teorico maturato attraverso esperienze cliniche innovative, dapprima a Les Rives de Prangins in Svizzera e poi al XIII arrondissement di Parigi e a Besancon, dove ha fondato - e guidato fino al 1996, anno della sua morte - l' Hôpital de jour "La Velotte", specializzato nella cura di giovani pazienti psicotici. Rigorosamente ancorato a un' appassionata pratica clinica, ci ha lasciato una preziosa eredità ricca di riflessioni teoriche che ruotano attorno a geniali intuizioni contenute nei suoi scritti ("Lo psicoanalista senza divano", "Gli schizofrenici", "Il genio delle origini", "Incesto e incestuale") che hanno rappresentato, e restano, un obbligato punto di riferimento per tutti coloro che nella pratica istituzionale si fanno effettivo carico della sofferenza grave dei pazienti e delle loro famiglie. Lo psichiatra israeliano di quella clinica sperduta nel deserto ricorda un Racamier (o quanti hanno avuto il coraggio di lavorare nel mondo schizofrenico). 
La trama è condotta in parallelo con salti dal 1960 agli anni che vanno dall'ascesa nazista a Berlino sino all'Abisso, alle deportazioni: gli anni di Adam Stein e della sua famiglia. Adam Stein (uno straordinario ed istrionico Jeff Goldblum) nella Germania degli Anni Venti era stato una star del teatro. Mago, clown e poliedrico artista, conduceva una vita agiata con la moglie e due figlie. Unico difetto: era ebreo. Oggi, Anni Sessanta, Adam è un sopravvissuto all'Olocausto che viene temporaneamente accolto presso una struttura psichiatrica di recupero nel deserto israeliano. Vi si curano (o si tenta di curare) pazienti che hanno subito gravi traumi. Come lo stesso Adam che era stato costretto dal comandante Klein ( un indimenticabile Willem Dafoe)  a comportarsi come un cane e che ora si ritrova a tentare di aiutare un bambino che cammina a quattro zampe e abbaia.
Paul Schrader - ed il direttore della clinica - punta tutto sulla figura di questo uomo che fa della Rappresentazione il suo modus vivendi e operandi. Adam ha dovuto suonare il violino mentre la moglie e una delle figlie venivano condotte nella camera a gas. Dalla storia sappiamo che musicisti hanno dovuto accompagnare i morituri anche con tanghi argentini prima di entrare essi stessi nelle fauci di Thanathos. Adam ha dovuto camminare a quattro zampe e abbaiare per il sadico e raziocinante piacere del comandante del campo di sterminio, sempre sperando di salvare la sua famiglia ma Klein gli dirà che non l'ha potuta salvare per non creare problemi. Oggi Adam può trasformare quel dolore insopprimibile ed eludibile solo dalla follia per aiutare un altro essere, un bambino anch'egli rinchiuso nella gabbia di angoscia. Fa tutto questo con tecniche che oggi definiremmo "paradossali", "conquistandosi" la fiducia del cane-bambino e trattandolo come cane. Tutto questo tra sanitari perplessi ma compiacenti, quasi ammirati da tanto genio, al cospetto di pazienti che suonano la tromba da ferroviere, che disegnano nell'aria, che lo ammirano e rispettano come un leader. Riesce a salvare il ragazzo in cui vede la prole perduta e riesce a evadere dalla botola della follìa ove la angoscia allagante della distruzione lo aveva relegato in un copione senza fine. (achille miglionico)


Paul Schrader


Adam Stein (Jeff Goldblum) nel mentrev recita la sua follìa alla Amleto

"Siamo tutti attori di una piece che sia il drammaturgo che il regista hanno abbandonato da tempo.
Tuttavia, signore e signori, Meine Damen und Herren, Ladies and Gentlemen, far calare il sipario è impossibile."






Adam al finale, da persona "guarita" :

"La sanità mentale è piacevole, è calma, ma non c'è grandiosità, né vera gioia, nè il dolore terribile che dilania il cuore."






Tutta colpa di Freud



In Tutta colpa di Freud, Francesco Taramelli (Marco Giallini) è uno psicanalista divorziato e padre di tre figlie sfortunate in amore, le quali sono anche le sue pazienti più fedeli, avendo ognuna a che fare con i propri problemi d'amore. C'è Sara (Anna Foglietta), la figlia più grande, lesbica, che decide di tornare da NEW YORK e diventare etero dopo l'ennesima delusione, perché probabilmente le donne non la capiscono come forse farebbero gli uomini.
Poi c'è Marta (Vittoria Puccini), romantica libraia dall'innamoramento facile con uomini impossibili, che instaura un forte e sorprendente legame con un ladro di libri sordomuto (Vinicio Marchioni) e si complica la vita e impara il linguaggio dei sordomuti. E infine Emma (Laura Adriani), brillante diciottenne, innamorata di un uomo di cinquant'anni (Alessandro Gasmann) prossimo alla separazione con la moglie. Come se non bastasse, anche lo stesso Francesco il psicanalista prova un sentimento platonico per una misteriosa donna (Claudia Gerini) che incontra ogni mattina al bar prima di andare al lavoro.

La nuova commedia di Paolo Genovese (tratta dal suo stesso libro) sorprende per dinamismo e spigliatezza. L'intreccio narrativo è sviluppato in maniera incredibilmente accurata e i vari sketch, alcuni particolarmente geniali (la scena della denuncia nel commissariato di Claudia Gerini) non risultano mai forzati ma appaiono invece naturali e realistici pur all'interno di situazioni paradossali. Nonostante la trama sia quella tipica della commedia degli equivoci italiana, essa non risulta mai banale, ma anzi, l'inserimento di inaspettati colpi di scena e di personaggi non tipici di questo genere mantiene alti sia l'attenzione che il divertimento. La sceneggiatura è ben attenta ad evitare eccessi di ogni tipo. Notevole e degno di lode è il cast del film: Marco Giallini,  il psicanalista, e Alessandro Gasmann, il cinquantenne formano un'ottima coppia comica che potrebbe probabilmente avere un futuro; nulla da dire su una sempre più in forma Anna Foglietta e una splendida e sognatrice Vittoria Puccini, senza tralasciare le sorprese della giovanissima Laura Adriani e di una Claudia Gerini quasi inedita nella compostezza del suo ruolo. Il lavoro della direzione sugli attori è visibile tanto da formare un equilibrio perfetto nel numeroso cast. Il film è ben scritto e ben girato con musica pertinente.  Tutta colpa di Freud è una commedia che merita assolutamente e che, alla fine, decide di lasciare il pubblico con una riflessione piuttosto che con un dato di fatto. Un film, in poche parole, sorprendente. (Sabina Pistillo)

lunedì 27 gennaio 2014

SHOAH. OLOCAUSTO. Non solo parole

Non semplici parole che si possono gridare ma anche negare. Qui le parole, il Logos, si incarna in immagini. Solo le immagini non possono essere negate, puoi solo chiudere gli occhi.
Non basta un mese di raccoglimento mondiale per evitare etnocidi. Proviamoci comunque. Ed insistiamo. I testimoni oculari stanno scomparendo del tutto. Conserviamone gli occhi. (a.m.)


mercoledì 22 gennaio 2014

GLI ULTIMI GIORNI: un film-documentario su SHOAH da rivedere

Gli ultimi giorni è un film documentario del 1998, diretto dal regista James Molle.  Steven Spielberg ne è il produttore esecutivo in qualità di fondatore della sua Shoah Foundation. Il documentario racconta gli orrori dei lager nazisti attraverso l’esperienza di cinque ebrei ungheresi sopravvissuti allo sterminio, uno dei quali, Tom Lanton, è stato l’unico sopravvissuto all’Olocausto eletto al Congresso USA. Il film è visibile e presente su YouTube, per coloro i quali volessero conoscerlo o farlo conoscere nel mese dell'anno dedicato alla Shoa. Noi riteniamo che ogni classe europea, le ultime delle Superiori, dovrebbe fare visita obbligata ad Auschwitz: ogni cittadino dovrebbe recarvisi almeno una volta nella vita. Ivi abbiamo visto piangere le persone più disparate, le più giovani: una commozione che fa crescere e sapere più di mille parole o di stantie immagini che l'occhio evita di fissare. Tra i LIBRI vi sono recensioni di libri editati di recente su Hitler, su Auschwitz. Per non dimenticare. Per sapere.

Il decreto successivo ci intimava di preparare una valigia di 25 Kg.,..All’inizio non capimmo… Pensa alla tua casa: che cosa puoi portare che pesi soli 25 kg?...cosa porti?...” 

(dal racconto nel film di  una sopravvissuta ungherese che ricorda  i momenti prima della deportazione)


GLI ULTIMI GIORNI


Abbiamo ripreso per noi tutti il film-documentario, Gli Ultimi Giorni, Oscar nel 1999, il quale racconta senza retorica e con la distanza del tempo e della vita che ha sconfitto la morte, “gli ultimi giorni” del nazismo.  Moll e Spielberg realizzano questo documentario per la "Survivors of the Shoah Visual History Foundation". Questo film, che ha come protagonisti cinque ebrei ungheresi sopravvissuti alla Shoah che ripercorrono la storia di vicende che loro stessi hanno in qualche misura rimosso, lascia il segno.
Le musiche adattate al film sono di Hans Zimmer e le fotografie autentiche sono di Harris Done. La priorità del documentario é stata per il regista  l’integrità storica. Anche se nella realizzazione di cortometraggi é prassi comune sfruttare delle immagini rappresentative al posto di quelle autentiche ma irreperibili, il regista ha utilizzare solo immagini di repertorio e fotografie originali.
A parlare é James Moll, regista de “Gli ultimi giorni”, “La storia doveva essere raccontata dalla viva voce dei testimoni oculari che descrivono gli eventi avvenuti, prima, durante e dopo la guerra”. Con Steven Spielberg come produttore esecutivo, il film ha assunto fin dal principio una sua fisionomia ben precisa; fu girato su una pellicola da 35mm, in cinque paesi diversi (Ungheria, Germania, Polonia, Ucraina, Stati Uniti) e con un budget limitato. Per tutti si é trattato di una sfida importante, di un tributo dovuto alla storia e alla memoria. Questo film documentario sulla Shoah è stato presentato e supervisionato da Steven Spielberg, fondatore della Survivors of the Shoah Visual History Foundation, associazione di sopravvissuti ai campi di concentramento che si prefigge di far conoscere, in particolare ai giovani, quella parte della storia umana che qualcuno prova a far dimenticare o addirittura rinnegare. 
 Nelle varie interviste abbiamo sentito spesso il regista americano ripetere la frase "per non dimenticare": è anche su queste basi che abbiamo costruito il nostro presente, su un passato che a molti ha precluso ogni futuro. L'opera, diretta da James Moll, è basata sulla testimonianza di cinque sopravvissuti ungheresi al campo di concentramento di Auschwitz.
 I racconti di queste persone sono supportati da immagini in bianco e nero che li rendono ancor più toccanti e reali agli occhi dello spettatore. La voce spezzata dalla commozione e dal dolore dei testimoni dell'olocausto, induce a interrogarsi sul motivo che ha spinto i tedeschi, all'inizio del 1944, quando stavano già per perdere la guerra contro gli Alleati, a dedicare così tante risorse - per loro essenziali - alla "guerra contro gli ebrei". Dovevano sterminarli in fretta ed ogni costo, anche al prezzo della sconfitta.
Il film, dopo aver indagato sulla vita (se così la si può chiamare) all'interno del campo di sterminio, si preoccupa di documentare il ritorno in Europa dei sopravvissuti, il rientro nei luoghi legati a ciascuna delle loro storie e le difficoltà del tornare a far parte del mondo dei "vivi". Vengono toccate questioni di moralità, religione e identità : "la grande maggioranza degli ebrei di Budapest era composta da persone del tutto integrate nella società ungherese, profondamente legate alla patria ed enormemente orgogliose delle proprie radici ungheresi" ci fa sapere Tom, uno dei protagonisti:
 Queste persone sono state profondamente cambiate, per tutto il tempo della loro prigionia, si sono sentite abbandonate da Dio, hanno provato odio, desiderato giustizia e vendetta. I pochi che hanno potuto assistere alla liberazione, quando le guardie persero il loro potere, esercitarono una vendetta violenta contro i loro oppressori, era una reazione emotiva al contesto estremo in cui fu compiuta... Alcuni rifiutarono la violenza e pensarono che ricostruire le proprie vite fosse una forma accettabile di vendetta. I sopravvissuti alla Shoah uscirono dai campi con sensazioni di confusione, rabbia, depressione e senso di colpa ; per molti ci sono voluti anni prima di essere reintegrati nella società, altri non sono mai riusciti a risentirsi a casa propria. "
La Shoah deve essere insegnata come un “capitolo della lunga storia della disumanità dell'uomo verso l'uomo". E' per questo motivo che, i reduci dai campi di concentramento, si impegnano nel raccontare le loro dolorose esperienze nonostante le difficoltà psicologiche che il farlo comporta. Il passato non muore, non deve morire, va meditato e rimeditato, vi si può riconoscere il futuro. (sabina pistillo)


“non c'è limite alla distruzione dell'uomo”
(Maurice Blanchot) 
Berlino

Berlino: Museo Ebraico

Berlino Museo Ebraico

Auschwitz




contenitori dei gas





Forni




Oggi: a Gerusalemme, Muro del Pianto
FOTO di a.m.



THE BUTLER: un piccolo grande film


La Storia si incarna in un suo piccolo protagonista:   sono sempre affascinanti questi film che - come il recente italiano L'ultima ruota del carro (da noi recensito) - narrano piccoli e grandi eventi sociali attraverso gli occhi della gente semplice e del cittadino qualunque, quel civis che la Storia stessa sembra ignorare, quasi non fosse il fondamento di sé. Probabilmente The Butler è la continuazione ideale di un altro film, Lincoln, ove il diritto americano comincia a farsi faticosamente strada tra i pregiudizi razziali dell'epoca grazie all'illuminato Presidente. Una continuazione tormentata. Lincoln (2012), pellicola assolutamente non snella ma densa, racconta come, nelle fasi conclusive della guerra di secessione americana, lo spilungone e saggio Abraham Lincoln abbia da affrontare il problema della abolizione della schiavitù negli USA, riuscendo in extremis a far approvare il XII emendamento della Costituzione. L'idea del progetto Lincoln  ha preso vita quando Steven Spielberg, dall'incontro con la scrittrice Doris Kearns Goodwin ed il suo libro Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln (pubblicato nel 2005), decide di girare un film sulla vita di Lincoln. E Lincoln prolunga la linea che diparte dall'altra pellicola di Spielberg,  Amistad (1997), la goletta negriera simbolo dello schiavismo. 


The Butler  origina - come si apprende dalla prefazione dello stesso regista e produttore Lee Daniels nel libro omonimo di Wil Haygood - da un articolo-inchiesta di Haygood comparso sul Washington Post  per la elezione del Presidente Barak Obama. Il giornalista cercò alacremente il maggiordomo afroamericano che aveva servito la Casa Bianca dal 1952 al 1986, da Henry Truman a Ronald Reagan. Lo trovò novantenne il Sig. Eugene Allen e lo intervistò a lungo: costui aveva "toccato con mano il movimento dei diritti civili, dall'interno e dall'esterno della Casa Bianca." Bussando a quella porta il giornalista ed il regista ripensarono alla magia di Via col vento ed intuirono che quella biografia andava narrata e diffusa. E dalla piantagione di cotone del Sud trae origine la storia del futuro butler. Una storia drammatica che è un racconto di "riconciliazione", per la nazione americana ma soprattutto per quel padre (Eugen) e quel figlio, giacché ciascuno dei due, solo dopo insanabili divergenze, arriva a comprendere e giustificare il ruolo opposto svolto dall'altro nel cambiare la Storia: le vicende arrivano sino ad Obama, passando dalla uccisione dei Kennedy e di Martin Luther King alla crudezza della posizione di Malcom X e delle Pantere Nere. Non erano bastate due guerre mondiali ed altri conflitti come quello coreano e vietnamita per suggellare la fratellanza tra cittadini della nazione più multietnica al mondo. Forrest Whitaker, che interpreta il maggiordomo della Casa Bianca, silenziosa presenza delle case altrui, paradossalmente riesce con una titanica interpretazione a dare il massimo della visibilità a chi doveva essere invisibile: l'attore campeggia anche quando entra da un lato dello schermo affollato, come quando il capocomico scivola sul palcoscenico proveniente da dietro le quinte. Alcune vicende sono romanzate ma vera è per esempio la scena di Jaqueline Kennedy che consegna affranta al maggiordomo una cravatta del marito appena assassinato; reale è l'invito al ricevimento di Stato da parte di Nancy Reagan. Più di cinquanta anni di storia americana e non americana sfilano davanti allo spettatore. Senza affanno e con sublime leggerezza. Da non perdere, checché ne dica la critica che non concede che poche stelle. (achille miglionico)





























domenica 19 gennaio 2014

Un “Boss in salotto”: comicità italiana in ascesa







Un Boss in salotto”,  bel film comico con interpreti di  notevole bravura che fa anche riflettere sul  termine "camorra". Il film “ Un Boss in salotto” è ben articolato sui vari “giochi di potere” che la competitività della vita consumistica impone.  Paola Cortellesi, l’attrice protagonista  chiamata nel film Cristina, sorella di presunto camorrista, nega la sua origine di “terrona” anche nella inflessione dialettale nordica  e nega parte identitaria di non poco conto, il suo vero nome (“Carmela”); ella fa vivere i propri figli Vittorio e Fortuna in un clima ovattato e “simmetrico” in stile “college” anglosassone. Ad un certo punto spunta il fratello, fatto ritenere defunto, un deviante presunto cammorista, il quale rompe l’equilibrio che lei con tanti sacrifici ha cercato di creare: “Una famiglia del mulino bianco”, quasi perfetta.
Il film si regge molto sulle solide spalle di Paola Cortellesi - che interpreta la madre Cristina - brava credibile eclettica, un'attrice piena di talento, e Rocco Papaleo, anch'egli molto bravo, capace di vivere la sua macchietta nella credibilità quasi fumettistica in cui il regista ha deciso di relegarlo. In un cottage eco compatibile, vive una famiglia quasi perfetta comandata a bacchetta da una madre-coach, Cristina, determinata e volitiva che ogni mattina incita i figli Vittorio e Fortuna a darci dentro nella vita, non senza aver prima corroborato il marito con la quotidiana dose di fiducia affinché ottenga il posto di direttore di marketing nella ditta edile che domina la città e i suoi abitanti, impiegati e sudditi. Cristina deve fare i conti con un'ingombrante figura maschile che qui prende le sembianze di un fratello pare camorrista. Il caso vuole che in attesa del processo che stabilisca la sua affiliazione, il fratello presunto boss venga mandato al confino bolzanino con la possibilità di attendere l'inizio del processo nella casa della sorella. Eccolo, dunque, che si presenta in quel di Bolzano vestito da vero “cafone”, con la tuta acetata, la canottiera bucherellata, svariate catene dorate al collo e uno stuzzicadenti pendente dall’angolo delle labbra. Cristina ha finito di vivere e il suo castello di finzioni cade un pezzo alla volta riportandola alle sue origini neglette, in un lento risorgere dell'orgoglio meridionale. Il tutto in un clima di comicità buona e non volgare. Al di là della  suggestione dell'infiltrazione camorristica al nord, la pellicola "tiene" da ogni punto di vista. Il marito di Cristina, debole  e mite di natura, e per questo anonimizzato nel cognome “Coso”,  sembra sottostare all’idea che per contare nella società bisogna scendere a compromessi, spesso notevoli. Fortuna che in fin dei conti quel che conta di più, rispetto al dio danaro, è l’affetto dei più cari. (Sabina Pistillo)

INFORMATICA-MENTE: DAL SÈ INTRAPSICHICO AL SÈ RELAZIONALE Tra cibernetica e metapsicologia

  Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese *Pubblichiamo, su richiesta di Colleghi e per facilitare la ricerca, questo articolo scientifi...